Diffamazione aggravata a mezzo Facebook e altri social network: ecco quando scatta il reato.
I battibecchi che spesso scaturiscono da un post o da un commento su un social network possono costare caro. Per chi si lascia andare in frasi offensive scatta la diffamazione aggravata: «aggravata» dal fatto che l’uso di internet costituisce un mezzo di pubblicità e di diffusione tale da arrecare un grave e immediato pregiudizio alla vittima. La pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516 euro.
Oggi, la diffamazione online è la forma più ricorrente di offesa a causa dell’uso sempre più massivo e frequente di piattaforme come Facebook e Instagram. Per i giudici, anche un messaggio postato su un “gruppo chiuso” rientra nella diffamazione aggravata in quanto ha la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone. Ma non solo. L’articolo pubblicato su un blog può integrare anch’esso il delitto in commento.
Conviene allora fare un rapido elenco di quelli che sono i più frequenti esempi di diffamazione su internet alla luce delle recenti sentenze della giurisprudenza. Ecco le frasi sui social che fanno scattare il reato di diffamazione. Per ognuna delle seguenti espressioni si è già pronunciata la Cassazione. Gli estremi delle relative sentenze sono indicati in calce alla presente nota.
Frasi che rientrano nella diffamazione online
Non sempre chi insulta commette un illecito. Ci sono casi in cui le espressioni, seppure aspre, rientrano nel normale diritto di critica. Ciò che conta è il contesto e il senso che si vuole attribuire alla parola. Ad esempio, dire «Sei un coglione» è diffamazione solo nella misura in cui si voglia attribuire a questa parola una valenza dispregiativa. Ma, secondo la Cassazione [1], se il significato da dare al termine è quello di «ingenuo, sprovveduto», non c’è diffamazione.
Chiamare una persona «moroso» è diffamazione se lo si fa al di fuori di un’assemblea condominiale. Nel lessico comune, questo termine sta a significare «persona che non paga i propri debiti» (a prescindere dalle ragioni, colpevoli o non). Dunque, non si può dire, su un social network, che una persona è inadempiente ai propri obblighi in quanto, con questo stigma, si mette alla berlina la vittima nei confronti di terzi che non sono interessati ai suoi problemi di natura patrimoniale.
Chi, riferendosi a una persona, afferma che la stessa «sta esaurita» commette diffamazione, a detta della Cassazione [3].
Dire di un tale che è un «pregiudicato» rientra nella diffamazione se lo scopo è quello di etichettarlo come “fuorilegge”. Se invece ci si sta riferendo a un procedimento penale specifico, nel quale l’interessato è direttamente coinvolto, allora non c’è alcuna offesa perché si sta esprimendo non una valutazione personale ma una constatazione oggettiva [4].
Allo stesso modo, commette diffamazione chi, riferendosi a un soggetto coinvolto in un’indagine penale, lo chiama «imputato» anziché «indagato». Come noto, infatti l’imputato è chi è stato già rinviato a giudizio mentre nei confronti dell’indagato si stanno solo facendo degli accertamenti. Secondo la Cassazione [5], non c’è alcuna giustificazione nell’utilizzare un termine al posto di un altro per un errore di battitura, una svista o una carente preparazione in materia giuridica.
Secondo la Suprema Corte, non c’è offesa – e quindi neanche diffamazione – nel caso in cui si dica di una persona che «dovrebbe vergognarsi». Difatti, il tenore di tale espressione, sebbene esprima disprezzo, non denota una particolare carica offensiva [6].
È diffamazione riportare e diffondere le frasi ingiuriose altrui. Secondo la Cassazione [7], chi diffonde una frase ingiuriosa detta da un soggetto nei confronti di un altro commette diffamazione. Si pensi a Tizio che, avendo saputo dell’offesa fatta da Caio nei confronti di Sempronio (offesa messa per iscritto o solo a voce), la comunichi a una serie di altre persone, aggravando quindi la posizione di Sempronio. La divulgazione della specifica parola offensiva, in casi come questi, serve solo a diffondere il più possibile l’offesa della reputazione della vittima.
Tra moglie e marito non mettere il dito. Dire «è una mantenuta» [8] o «l’ha sposato per soldi» [9] rientra infatti nella diffamazione.
Dire di una persona che è davvero molto brutta non rientra nella diffamazione. Sicuramente, nell’immaginario collettivo, dire sei brutto, ripugnante oppure «mi fai schifo» è offensivo. Ma l’offesa si rivolge a un bene esteriore: l’aspetto fisico. Si tratta quindi di un giudizio prettamente estetico. Lo scopo dei reati di diffamazione e di ingiuria invece mira a tutelare valori interiori alla persona, non certo estetici: l’onore e il decoro di un soggetto o la sua reputazione. Si tratta quindi di profili connessi alla moralità, al buon nome, all’onore; non certo al taglio di capelli, al modo di vestire, alla forma del naso, all’obesità.
Anche dare del pinocchio a una persona, ad esempio, all’amministratore di condominio non è, secondo la Cassazione [10], diffamazione. Tale espressione rientra nel diritto di critica.
Dire di un collega di lavoro che è un leccapiedi è considerato offensivo della sua reputazione e, quindi, rientra nella diffamazione [11].
Chiamare un politico «buffone» costituisce esercizio del diritto di critica politica [12]. Diritto che però non sussiste per le altre comuni persone, nei confronti delle quali lo stesso termine invece deve considerarsi vietato.
Secondo il tribunale di Roma [13], è diffamazione a mezzo social scrivere frasi come «se mettesse da parte un po’ della sua boria farebbe senz’altro una più bella figura», oppure «professore, si fa per dire».
Scatta la diffamazione aggravata anche per chi, con un post visibile a tutti i suoi contatti, offenda l’ex marito accusandolo di non contribuire al mantenimento dei figli [14].
Stessa sorte per la moglie separata che in bacheca insulti il marito qualificandolo come «un miserabile» bisognoso di cure psichiatriche [15] o per chi, nella spasmodica ricerca di «giustizia nel placet di un esercito virtuale di utenti», denigri una professoressa sul piano familiare, privato e lavorativo [16].
Ed è ancora diffamazione dire di una persona «viscido e senza spina dorsale» [17].
È infine diffamazione chiamare un giornalista «pseudo giornalaio (…) pagato per blaterare» [18].
Quando il corteggiamento diventa reato
La troppa insistenza può sconfinare in stalking, molestie o violenza sessuale.
Note:
[1] Cass. sent. n. 34442/17 del 13.07.2017.
[2] Cass. sent. n. 46498/14 dell’11.11.14.
[3] Cass. sent. n. 46488 dell’11.11.2014.
[4] Cass. sent. n. 475/15 dell’8.01.2015.
[5] Cass. ord. n. 12370/18 del 18.05.2018.
[6] Cass. sent. n. 20258/2016. Il precedente si riferisce però al caso di un’offesa pronuncia nei confronti della vittima; dunque era in gioco l’abolito reato di ingiuria.
[7] Cass. sent. n. 44387/2015.
[8] Cass. sent. n. 522/17 del 5.01.2017.
[9] Cass. sent. n. 31434/17 del 23.06.2017.
[10] Cass. sent. n. 41785/2016.
[11] Cass. sent. n. 35013/2015.
[12] Cass. sent. n. 19509/2006.
[13] Trib. Roma sent. n. 16263/2019.
[14] Trib. Torino sent. n. 299/2020.
[15] C. App. Cagliari, sent. n. 257/2020
[16] Trib. Ascoli Piceno sent. n. 90/2020.
[17] Trib. Taranto sent. n. 123/2020.
[18] Trib. Campobasso, sent. n. 43/2020.