FALLIMENTO
I requisiti che escludono il fallimento alla luce della riforma.
La riforma apportata alla materia del fallimento e delle altre procedure concorsuali, con l’approvazione del D. Lgs n.14 del 12 gennaio 2019, ha introdotto nel nostro ordinamento il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.
Tra le novità più rilevanti ci sono anche alcune interessanti novità normative, tra cui le procedure di allerta, di cui abbiamo trattato in altri articoli, ma ha invece lasciato invariati i principi fondamentali che regolano da tempo il settore.
REQUISITI DI ESCLUSIONE
Tra questi, vi sono i requisiti che consentono all’imprenditore di non essere assoggettato alla procedura di “liquidazione giudiziale”, espressione che ha sostituito il termine “fallimento”, e che, fino all’entrata in vigore del nuovo Codice, erano stabiliti dall’art. 1 del R.D. 267/1942, così come modificato dal d.lgs. 5/2006 e dal d.lgs. 169/2007.
L’art. 1 della legge fallimentare del ‘42 dispone che “sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale, esclusi gli enti pubblici”.
Non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti:
- a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila;
- b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila;
- c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila”.
Sui limiti anzidetti la norma, infine, prevede l’aggiornamento triennale in base alle variazioni ISTAT.
SOGLIA SOGGETTIVA
I suddetti requisiti “soggettivi”, riferiti cioè al soggetto di cui si chiede il fallimento, individuano le cosiddette “soglie di fallibilità”, il cui mancato superamento determina la non assoggettabilità a fallimento dell’imprenditore.
Tali soglie non sono state modificate dal d.lgs. n. 14/2019, che all’art. 2 definisce “minore” l’impresa che presenta congiuntamente i suddetti requisiti, distinguendola dalla “grande impresa”, che, invece, si caratterizza per il superamento di almeno due dei tre criteri seguenti:
- a) totale dello stato patrimoniale: venti milioni di euro;
- b) ricavi netti delle vendite e delle prestazioni: quaranta milioni di euro;
- c) numero medio dei dipendenti occupati durante l’esercizio: duecentocinquanta.
ONERE DELLA PROVA
L’onere della prova è posto dalla stessa legge fallimentare del ‘42 a carico dell’imprenditore, il quale, se vuole evitare le conseguenze del fallimento, deve dimostrare il possesso congiunto dei tre requisiti soggettivi.
In mancanza di tali allegazioni il Giudice, esercitando il potere di acquisizione d’ufficio attribuitogli dalla legge fallimentare, potrà disporre gli accertamenti utili presso le banche dati dell’Agenzia delle Entrate, dell’INPS e della Camera di Commercio, onde poter accertare la sussistenza o meno dei presupposti di cui all’art. 1 l.f..
La riforma introdotta con il d. lgs. 14/2019 conferma la previsione dell’onere della prova a carico dell’imprenditore; l’art. 121, infatti, nel prevedere i presupposti della liquidazione giudiziale, dispone che “le disposizioni sulla liquidazione giudiziale si applicano agli imprenditori commerciali che non dimostrino il possesso congiunto dei requisiti di cui all’articolo 2, comma 1, lettera d), e che siano in stato di insolvenza”.
Anche in base alla nuova legge, dunque, è l’imprenditore che deve attivarsi per evitare che venga dichiarato il suo fallimento, oggi liquidazione giudiziale, comparendo dinanzi al Tribunale fallimentare – con la riforma ridenominato Tribunale concorsuale – e dimostrando il possesso congiunto dei predetti requisiti.
In definitiva, l’impresa nei confronti della quale viene presentata l’istanza di fallimento deve provare (dare dimostrazione attraverso i bilanci, le scritture contabili, le dichiarazioni dei redditi, etc.) di non aver superato nessuno dei limiti previsti dall’articolo 1 della Legge Fallimentare.
In caso di inerzia dell’impresa nei cui confronti il creditore procede, il Tribunale non può procedere se i debiti non superano l’importo di euro 30.000 siccome previsti dall’articolo 15, comma 9, del R.D. n. 267/1942.
Il predetto articolato infatti, così dispone:
“Non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento se l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell’istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore a euro trentamila“.
MINIMO INDEBITAMENTO
Oltre ai suddetti limiti la legge fallimentare del ‘42, all’art. 15 ultimo comma, pone un requisito “oggettivo”, in quanto riferito all’ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell’istruttoria prefallimentare, cioè quella fase del procedimento che anticipa la dichiarazione di fallimento.
Si parla, a tal proposito, di “minimo indebitamento” per indicare il limite di € 30.000 (anch’esso periodicamente aggiornato) posto dalla legge, al di sotto del quale non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento.
Anche tale soglia è rimasta invariata a seguito dell’approvazione del Codice della crisi d’impresa, il quale, all’art. 49 comma 5 conferma il limite suddetto, impedendo la dichiarazione di liquidazione giudiziale in caso di ammontare di debiti inferiore.