Le esigenze di economia processuale e di attuazione del principio del favor rei impongono di arrestare lo svolgimento del processo non appena emerga la possibilità di pronunciare una sentenza di proscioglimento, attribuendo al giudice un potere dovere d’iniziativa officiosa.
L’ordine progressivo delle diverse cause di non punibilità di cui all’art. 129 c.p.p., che non ha modificato la precedente disciplina dettata sul punto dall’art. 152 c.p.p. abrogato, indica, in caso di concorso di dette cause, quale debba essere applicata con priorità sulle altre in quanto, nel predisporre tale ordine, il legislatore ha inteso effettuare una valutazione dell’interesse dell’imputato e, graduando tale interesse, stabilire quale formula di proscioglimento risulti più favorevole1. In tema di scelta tra le varie formule assolutorie, va pronunciata assoluzione con la formula “perché il fatto non sussiste” quando manchi uno degli elementi oggettivi del reato, mentre deve assolversi con la formula “perché il fatto non costituisce reato” quando manchi l’elemento soggettivo. Ne deriva che, accertandosi il difetto del rapporto di causalità tra azione ed evento, l’assoluzione con la formula “perché il fatto non sussiste” prevale su qualsiasi altra con formula diversa e, in particolare, rende superflua ogni valutazione della condotta.
Rapporto di specialità risulta esistente tra gli artt. 129 comma 1 e 469 c.p.p., onde in presenza di una causa di improcedibilità o di improseguibilità dell’azione o di estinzione del reato rilevata nella fase predibattimentale, troverà applicazione la sentenza di non doversi procedere prevista dalla seconda disposizione. Ciò non esclude che nel caso in cui sussista un’ipotesi di estinzione del reato, in presenza di un’evidente causa di proscioglimento nel merito, possa trovare applicazione la sentenza prevista dal comma 2 dell’art. 129 c.p.p.: non vi sono ragioni per escludere la fase precedente al dibattimento in senso stretto dall’applicabilità di questa disposizione che ha una portata generale in ogni stato e grado del processo2.
E’ stato costantemente affermato in giurisprudenza e dottrina ai fini della prevalenza della formula di proscioglimento sulla causa estintiva del reato, che il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129 comma 2 c.p.p. soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la sua rilevanza penale e la non commissione del medesimo da parte dell’imputato emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile3.
La nozione di “evidenza” di cui all’art. 129 comma 2 c.p.p. impone per sua natura la radicale mancanza di “prove a carico” o la sussistenza di una o più “prove a discarico”, tali da possedere un grado di certezza che permetta al giudicante di addivenire ad una pronuncia assolutoria senza approfondita analisi delle risultanze istruttorie, ossia una disamina compiuta tra gli eventuali contrastanti elementi di prova4. L’art. 129 comma 2 c.p.p. non può trovare applicazione in presenza di una mera contraddittorietà o di una insufficienza probatoria: in entrambe le ipotesi si devolverebbe al giudice un apprezzamento ponderato tra opposte risultanze e ciò in netto contrasto con il contenuto della norma che richiede esclusivamente la rilevabilità de plano degli elementi a discarico dell’imputato. La “evidenza” richiesta dall’art. 129 comma 2 c.p.p. presuppone, infatti, la manifestazione di una verità processuale così chiara, manifesta ed obiettiva da rendere superflua ogni dimostrazione, anche se ciò non implica che l’innocenza si manifesti prima facie, ben potendo essere il risultato di operazione logiche talvolta complesse del materiale probatorio sino ad allora raccolto5.
Circa la questione delle formule da adottare è opportuno richiamare la giurisprudenza della Corte Costituzionale, infatti sul rapporto tra la disciplina ex art. 129 comma 2 c.p.p. e quella di cui all’art. 530 comma 2 c.p.p. la Corte è intervenuta con due diverse ordinanze la n. 300 e la n. 362 entrambe del 1991.
Nel primo caso il giudice a quo aveva sollevato, in relazione all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 129 comma 2 c.p.p., affermando di essere pervenuto a giudizi di assoluzione per insufficienza di prove e di non aver potuto assolvere ai sensi dell’art. 530 c.p.p. gli imputati con la formula “perché il fatto non sussiste”, in quanto, rientrando il reato in questione nell’amnistia, si sarebbe dovuto applicare l’art. 129 comma 2 c.p.p., a termine del quale, in presenza di una causa estintiva, l’assoluzione nel merito prevale solo nel caso in cui risulti evidente l’innocenza dell’imputato. A seguito del provvedimento di clemenza, sarebbe risultata preclusa all’imputato l’assoluzione con la formula più favorevole, mentre nella stessa situazione probatoria di prova insufficiente, l’imputato del più grave reato non coperto da amnistia si sarebbe giovato della formula dell’insussistenza del fatto; il decreto di amnistia, al pari dell’intervento di ogni altra causa estintiva, ridava rilevanza al dubbio probatorio, così gli imputati si sarebbero trovati assoggettati ad una disparità di trattamento. La Corte Costituzionale dichiarando la manifesta infondatezza della questione, ha affermato che il principio della prevalenza delle formule assolutorie di merito su quelle dichiarative dell’estinzione del reato è contemperato con l’esigenza che appaia del tutto evidente dalle risultanze probatorie che “il fatto non sussiste” o che “l’imputato non lo ha commesso” o che “il fatto non costituisce reato” o che “il fatto non è previsto dalla legge come reato”. Comunque l’applicazione dell’amnistia nei confronti degli imputati per i quali non ricorrevano tali ipotesi, non determina violazione del principio di eguaglianza, attesa la rinunziabilità della causa estintiva che, costituendo esplicazione del diritto di difesa, è posto a tutela del diritto “di chi sia perseguito penalmente ad ottenere non solo una qualsiasi sentenza che lo sottragga all’irrogazione della pena, ma precisamente quella sentenza che nella sua formulazione documenti la non colpevolezza”.
Il medesimo itinerario argomentativo è stato riproposto con riferimento alla causa estintiva della prescrizione dall’ordinanza n. 362 del 1991 in base all’assorbente rilievo della rinunziabilità della causa estintiva. Poi con decisioni diverse la Corte Costituzionale rilevò esplicitamente la incostituzionalità della mancata previsione della rinunciabilità delle cause estintive dell’amnistia e della prescrizione: rinunciabilità poi inserita nell’art. 157 c.p. con la Legge n. 251 del 5.12.2005, c.d. ex Cirielli.
La sentenza n. 275 del 1990 dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 157 c.p., per contrasto con gli artt. 3 comma 1 e 24 comma 2 Cost., lì dove non prevedeva che la prescrizione del reato potesse essere rinunciata dall’imputato. La sentenza muovendo dal duplice rilievo della discrezionalità della prescrizione in sede applicativa e del fatto che raramente le cause che portano al suo perfezionarsi sono ascrivibili all’imputato, osservò che il legislatore nel disciplinare l’istituto sostanziale della prescrizione, doveva tener conto del carattere inviolabile del diritto di difesa, inteso come diritto al giudizio e, con esso, a quello della prescrizione, e così conclusivamente si è espressa “è privo di ragionevolezza rispetto ad una situazione processuale improntata a discrezionalità, che quell’interesse a non più perseguire debba prevalere su quello dell’imputato, con la conseguenza di privarlo di un diritto fondamentale. Deve essere, pertanto, affermata la rinunciabilità della prescrizione dichiarando la parziale illegittimità dell’art. 157 c.p. che non la prevede”.
Il Giudice delle Leggi sottolinea come la rinuciabilità della causa estintiva sia da considerare strumento efficace per l’esplicazione del diritto di difesa ai fini del perseguimento dell’interesse morale ad un’assoluzione con formula piena e dell’interesse patrimoniale sul versante dei riflessi civilistici.
Non è priva di rilievo la natura della rinuncia della prescrizione quale diritto personalissimo dell’imputato a lui personalmente ed esclusivamente riservato6, l’art. 157 c.p. così come novellato dall’art. 6 della Legge n. 251 del 05.12.2005 comporta che la rinuncia alla prescrizione, dopo la maturazione del relativo termine di legge , richieda una dichiarazione di volontà espressa e specifica dell’imputato che non ammette equipollenti7.
La rinuncia alla prescrizione non rientra nel novero degli atti processuali che possono essere compiuti dal difensore a norma dell’art. 99 c.p.p.8, al punto che la Suprema Corte ha dichiarato inefficace la rinuncia alla prescrizione proveniente dal difensore non munito di apposita procura speciale, ancorché la relativa dichiarazione sia stata avanzata alla presenza dell’imputato9.
Registra, invece, un contrasto nella giurisprudenza di legittimità, la questione dei rapporti tra la declaratoria immediata di determinate cause di non punibilità ai sensi dell’art. 129 c.p.p. e la pronuncia assolutoria per insufficienza o contraddittorietà della prova ex art. 530 comma 2 c.p.p..
Secondo un primo indirizzo interpretativo, la formula di proscioglimento nel merito non prevale sulla dichiarazione immediata della causa di non punibilità nel caso di contraddittorietà o insufficienza della prova10. Muovendo dalla considerazione che per l’applicazione dell’art. 129 comma 2 c.p.p. è richiesta l’evidenza della prova dell’innocenza dell’imputato, i sostenitori di detto indirizzo ritengono che la formula di proscioglimento nel merito debba prevalere sulla causa di estinzione del reato solo allorquando i relativi presupposti (l’inesistenza del fatto/l’irrilevanza penale dello stesso/il non averlo l’imputato commesso) risultino dagli atti in modo incontrovertibile tanto da non richiedere alcuna ulteriore dimostrazione avuto riguardo alla chiarezza della situazione processuale, al punto che è stato affermato che in tali casi il giudice procede più che ad un “apprezzamento” ad una “constatazione”.
Secondo altro indirizzo, in situazione di incertezza probatoria prevale la formula ex art. 530 comma 2 c.p.p., rispetto alla declaratoria della causa di estinzione11. Indirizzo interpretativo che si ispira al principio che imponeva, nella vigenza del codice abrogato, l’equiparazione dell’ipotesi della sussistenza di prove dell’evidenza della non commissione del fatto all’ipotesi della mancanza assoluta della prova che l’imputato lo avesse commesso.
Quindi, l’estinzione del reato, pronunciata de plano, preclude ogni indagine di merito diversa da quella relativa all’evidente innocenza risultante dagli atti del procedimento; la statuizione ha pertanto valore dichiarativo dell’estinzione e non è destinata ad acquisire autorità di res iudicata nel merito, con la conseguenza che non ha efficacia vincolante e preclusiva per l’imputato e la parte civile, a norma degli artt. 652 ss. nel procedimento civile, disciplinare e amministrativo.
1[1] Lattanzi, Codice di procedura penale annotato con giurisprudenza, voce art. 129, Giuffrè, 2009;
2[1] Riccio, Spangher, La procedura penale, Edizioni Scientifiche Italiane, 507;
3[1] Cass., Sez. III, n. 20807, 24 aprile 2002, Rv. 221618; Cass., Sez. III, n. 9096, 23 giugno 1993, Rv. 195202; Cass., Sez. I, n. 6825, 09 maggio 1994, Rv. 198121;
4[1] S.S. U.U., sentenza n. 35490, 28 maggio 2009, Rv. 244275;
5[1] Cass., Sez. I, 16 settembre 2004, n. 2268, Fagan;
6[1] Cass., Sez. II, 09 giugno 2005, n. 23412, Rv. 231879;
7[1] Cass., Sez. I, 13 marzo 2007, n. 18391, Rv. 236576;
8[1] Cass., Sez. II, 21 giugno 2005, n. 23412;
9[1] Cass., Sez. V, n. 45023, 22 dicembre 2010;
10[1] Cass., Sez. III, 26 febbraio 1993, n. 3440, Gablai, Rv.194120; Sez. V, 02 dicembre 1997, n. 1460, Fraticello; Sez. VI, 05 marzo 2004, n. 26027, Pulcini, Rv. 229968;
11[1] Cass., Sez. II, 21 giugno 1990, n. 5455, Lagodana, Rv. 187510; Cass., Sez. V, 18 gennaio 2005, Martelli, Rv. 231567.