Che cosa può pretendere la lavoratrice che viene lasciata a casa solo perché potrebbe restare incinta ad una certa età.
Metti una donna non più giovanissima ma nemmeno in età di non avere più bambini che rimane per la prima volta incinta. Il destino vuole che quella gravidanza a rischio non giunga a termine. La donna rimane a casa dal lavoro, il tempo di rimettersi in sesto, poi rientra. Metti anche un datore di lavoro che fa questo tipo di riflessione: «Visto che il primo figlio non è riuscito a farlo, niente di più probabile che questa dipendente provi di nuovo a restare incinta. Il che significa maternità anticipata per non correre altri rischi, congedo obbligatorio, poi quello facoltativo. Un periodo di assenza troppo lungo: meglio lasciarla a casa subito». Per una possibile gravidanza a rischio, il licenziamento è legittimo? Oppure si oltrepassano i confini della discriminazione?
La Corte d’Appello di Catania [1] si è pronunciata su questo tema con una sentenza che, sebbene a qualcuno sembri scontata, ad altri lascia un po’ perplessi. Diceva, infatti, il poeta spagnolo del Novecento Ramon de Campoamor che «in questo traditore mondo, non c’è cosa vera o falsa: tutto dipende, signori, dalla lente attraverso la quale si guarda». Come a dire: ciò che a te può sembrare giusto, per un altro sarà ingiusto. E ciascuno avrà le sue rispettabili ragioni per vedere la stessa cosa in maniera diversa.
In questo caso, però, conta la lente del Tribunale. Secondo cui, di fronte ad una possibile gravidanza a rischio, di licenziamento legittimo non se ne parla. Vediamo perché.
Licenziamento: quando è discriminatorio?
Ci sono delle circostanze in cui un licenziamento viene ritenuto per legge discriminatorio [2]. Succede quando un dipendente viene lasciato a casa per favorire un altro lavoratore, oppure perché ha un modo di pensare o di agire che, pur nella correttezza, non è gradito dal datore.
Nel dettaglio, c’è discriminazione dietro un licenziamento quando il provvedimento è dettato da:
motivi di credo politico o religioso;
appartenenza attiva ad un sindacato;
motivi razziali, di lingua, di sesso, di handicap, di età, di orientamento sessuale o di convinzioni personali.
Viene considerato discriminatorio anche il licenziamento messo in atto per una maternità o in concomitanza con le nozze. In questi ultimi due casi, rientrano i timori del datore di lavoro di cui parlavamo all’inizio: matrimonio in vista equivale, prima o poi, a gravidanza in vista. Che vuol dire assenza dal lavoro per molti mesi (a seconda dello stato di salute e delle decisioni che prenderà la lavoratrice) e la necessità di chiamare un’altra persona per la sostituzione.
Licenziamento: la possibile gravidanza a rischio è discriminazione?
Il datore di lavoro che licenzia o mette una lavoratrice a svolgere una mansione irrilevante perché «tanto, prima o poi mi resterà a casa in maternità» sta, dunque, compiendo una discriminazione nei confronti della dipendente. Lo stesso succede, secondo la sentenza della Corte d’appello di Catania, con l’azienda che adotta lo stesso provvedimento con una lavoratrice solo perché potrebbe avere una gravidanza a rischio.
Il caso di cui si sono occupati i giudici siciliani riguardava una donna quasi 40enne che non era riuscita a portare a termine la prima gravidanza. Il suo titolare ha pensato che la dipendente ci avrebbe riprovato e che, quindi, sarebbe rimasta di nuovo in maternità e lontana dall’ufficio. Tanto gli è bastato per decidere il licenziamento della lavoratrice, peraltro senza poter dimostrare che non si trattava di un atto discriminatorio.
Cosa rischia il datore in questo caso? Secondo il tribunale di Catania, di fronte ad un provvedimento come questo, l’azienda non solo deve riassumere la dipendente o, in alternativa, riconoscerle un certo numero di mensilità: deve anche versarle un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno in cui è diventato effettivo il licenziamento fino alla data di notifica del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, più gli interessi legali e la rivalutazione monetaria. Non solo: deve anche versare i contributi previdenziali e assistenziali dovuti in tutto quel periodo ed un risarcimento compreso di interessi e rivalutazione.
Certo, il datore di lavoro non sarà così sprovveduto da ammettere che il licenziamento è frutto di una possibile gravidanza a rischio, perché ben saprebbe che la sua giustificazione non reggerebbe da nessuna parte. Facile, dunque, che metta sul tavolo un’altra motivazione, questa volta legittima, come il giustificato motivo oggettivo. Teoria difficile da difendere se, come nel caso della sentenza siciliana, chi deve restare a casa è la persona con maggiore anzianità e si salvano i più inesperti. La difesa della lavoratrice discriminata non farà molta fatica a fare «due più due» e a mettere il giudice nelle condizioni di capire che, in realtà, la motivazione del licenziamento è ben diversa (leggi anche Quando un licenziamento è ritorsivo e discriminatorio?).
Note:
[1] Corte appello Catania sent. n. 11/2020.
[2] Art. 4 legge 604/1966 e art. 15 legge 300/1970.