Sì a class action e richiesta danni ai social network.
Sentenza del Consiglio di Stato n.2631/2021 del 29 marzo 2021.
Il Consiglio di Stato conferma la sanzione a Facebook: scarsa informazione sull’uso dei dati degli utenti, venduti a scopo commerciale.
Chi ha un profilo su Facebook, su Instagram o su Twitter ha diritto a sapere come vengono utilizzati i propri dati personali: sentirsi dire dai social network che vengono offerti dei servizi gratuiti ma non ricevere una sola indicazione su come vengono utilizzati i dati degli utenti non è un comportamento corretto. Così la pensa l’Antitrust, che apre alla possibilità di avviare una class action contro i gestori delle reti sociali e, addirittura, alla richiesta di un risarcimento del danno non patrimoniale e del profitto realizzato con la messa in commercio dei dati. Perché è questa la vera miniera d’oro dei social, come conferma l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, e l’utente ha il diritto di saperlo.
In pratica, in cambio dei servizi che Facebook offre a chi ha un profilo sulle reti sociali, la piattaforma fa incetta di informazioni che poi vende a scopi commerciali, in particolare quelle che riguardano le abitudini di navigazione. Cosa che all’utente non viene detta in modo chiaro. Quando, però, si insiste sulla gratuità dei servizi offerti, secondo l’Antitrust, si cade nella pubblicità ingannevole. Per questo motivo, ad esempio, Facebook è stato condannato dalla stessa Autorità a pagare una sanzione di 5 milioni di euro e a pubblicare un avviso in cui dichiara di aver violato il Codice del consumo per non aver dato agli utenti un’informazione adeguata. Decisione confermata recentemente in una sentenza del Consiglio di Stato [1].
Il concetto è questo: non si può dire che si offre ad un utente un servizio gratuito quando, all’insaputa dell’utente stesso, si utilizzano i suoi dati per fare una fortuna: non a caso, questo commercio di dati – si legge nella sentenza – rappresenta il 98% del fatturato dei social. Frutto dell’attività degli algoritmi, che colgono e analizzano l’attività di chi frequenta le reti sociali ed elaborano dei profili che poi vengono usati e ceduti a pagamento.
Da quanto sostenuto dal Consiglio di Stato, la pratica ingannevole darebbe la possibilità di avviare una class action da parte degli utenti e di chiedere il risarcimento del danno non patrimoniale e per il profitto avuto dalla commercializzazione dei dati. Purché, però – ha stabilito la Cassazione –, venga provato il danno subìto.
Resta indiscutibile, comunque, che l’utente ha il diritto di sapere dove vanno a finire le informazioni e i dati ricavati dalla sua iscrizione ad un social network e dalla sua navigazione sul web. A tal proposito, bisognerà valutare un eventuale intervento sanzionatorio da parte del Garante della privacy.
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Note:
[1] Cons. Stato sent. n. 2631/2021 del 29.03.2021.