Le dichiarazioni della persona offesa nel filtro della credibilità: la verità processuale oltre ogni ragionevole dubbio.
Sommario: 1. La prova dichiarativa proveniente dalla persona offesa dal reato. L’origine della vexata quaestio dell’attendibilità nelle “vittime vulnerabili” – 1.1. La credibilità della vittima nei procedimenti per violenza sessuale. La figura del minore abusato e la Carta di Noto – 2. Il cammino giurisprudenziale sulla credibilità delle persone offese. La sentenza n. 13016/2020 della Corte di Cassazione – 3. Verso i (possibili) criteri di valutazione: il confine tra credibilità e sospetto intorno alle dichiarazioni rese. L’ascolto protetto delle vittime vulnerabili.
- La prova dichiarativa proveniente dalla persona offesa dal reato. L’origine della vexata quaestio dell’attendibilità nelle “vittime vulnerabili”.
“Per comprendere certi delitti bisogna conoscere le vittime”. Così recitava Oscar Wilde.
Eppure, nel panorama storico-giuridico italiano, l’invecchiato modello penale incentrato sul reo quale soggetto da condannare e rieducare ha rivelato la sua intrinseca debolezza solo a partire dagli anni ’40 del secolo scorso, anche in conseguenza ad una Carta Costituzionale dalla innegabile portata rivoluzionaria. Il giurista ha lentamente colto nel sistema penale la necessità di “ascolto” delle richieste della persona offesa, affinché la stessa non finisca col subire una seconda vittimizzazione, quella della dimenticanza. È in questa prospettiva che negli ultimi decenni ha preso forma la rivoluzione copernicana intorno alla nozione di vittima, ricostruita non più in chiave meramente passiva, ma come soggetto che esprime esigenze di protezione non (più) trascurabili.
Ad oggi, in un contesto tendenzialmente vittimo-centrico, la definizione di “vittima vulnerabile” ricomprende chi, per le caratteristiche legate al soggetto, minore o infermo di mente, ovvero al tipo di violenza subita, è vittima di un trauma in conseguenza del reato e in quanto tale deve essere tenuta a riparo dalla cosiddetta “vittimizzazione secondaria”, ossia dal patimento di un nuovo e successivo trauma indotto dal processo stesso, inevitabilmente connesso alla riedizione del ricordo. Si tratta di una nozione estremamente variabile, nel tempo arricchitasi dei significati dai contorni più disparati, finendo per includere non solo il minore, il soggetto affetto da infermità mentale, ma anche e frequentemente le vittime di reati sessuali, di maltrattamenti, di violenze domestiche, di mutilazioni genitali, di tratta e riduzione in schiavitù, di mafia e di terrorismo. Di crimini sempre più efferati.
La nozione di vulnerabilità oscilla tra la valorizzazione della tipologia del reato subito e l’attenzione per le caratteristiche personali e soggettive di chi ha patito il pregiudizio del reato. Per meglio dire, per un versante prevale la vulnerabilità connessa al tipo oggettivo di crimine di cui si è vittima, in relazione alla modalità dell’azione criminosa, alle caratteristiche del bene tutelato- sovente particolarmente sensibile come la libertà sessuale- per un altro prevale un’attenzione soggettivistica e psicologica in ordine alla quale la vittima è vulnerabile a prescindere dal tipo di delitto che abbia leso i suoi diritti.
Il discusso tema che oggi investe la credibilità oggettivo-soggettiva delle dichiarazioni provenienti dalle persone offese da reato, calato in particolar modo nel mondo delle vittime vulnerabili, mostra con forza le criticità di un settore nevralgico del processo penale assoggettato all’ incontrastato dominio giurisprudenziale. Attualmente, l’orientamento interpretativo maggioritario, in materia di prova dichiarativa proveniente da una figura peculiare e complessa quale quella del querelante-persona offesa-parte civile-testimone, è quello secondo cui il sapere della persona offesa, quand’anche privo di riscontri esterni ed emergente da un soggetto per sua natura interessato alle sorti del processo, può giustificare una sentenza di condanna dell’imputato.
I dubbi che gravitano attorno a questo dibattito prendono forma dalla circostanza fattuale per cui la persona offesa de qua è per definizione “l’antagonista dell’imputato”, facendo scattare campanelli d’allarme difficilmente trascurabili rispetto all’ordinaria regola della colpevolezza che risulti al di là di ogni ragionevole dubbio.
Il punto di partenza può essere individuato nella Carta Costituzionale, ove all’art. 27, secondo comma, è sancita una presunzione di non colpevolezza dell’imputato estesa fino all’emanazione della sentenza definitiva. Vieppiù che, nella scala dei valori costituzionali in materia processuale, a fianco all’art. 27 emerge l’art. 111 Cost., teso a fissare il perimetro del cosiddetto “giusto processo”, stabilendo al comma 2 che «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità».
Tali pilastri costituzionali rischiano di entrare pericolosamente in crisi quando il risultato della vicenda processuale, spesso fatta di aspri e violenti contrasti tra la “vittima” e il suo “antagonista”, sembra attestarsi nelle mani e nella posizione della persona offesa, ossia di un soggetto processuale tanto coinvolto e interessato ad un determinato esito quanto “preferibile” rispetto all’imputato. Da qui la chiamata in causa dei diritti di difesa, inviolabili stando all’articolo 24 della Carta Fondamentale, di un imputato inevitabilmente posto in posizione subvalente.
È evidente come la quaestio da esaminare sia la seguente: nell’ambito delle vicende che vedono coinvolte le suddette vittime “vulnerabili”, la prova dichiarativa proveniente da chi rivesta il ruolo di persona offesa dal reato, nonché eventualmente lo status di parte civile costituita nel pendente processo penale, è in grado di giustificare, da sola e quindi autonomamente, la sentenza di condanna di un imputato? La risposta, che per giurisprudenza prevalente è ampiamente positiva, per lo spirito critico del giurista e probabilmente per una consistente fetta di opinione pubblica è una fugace alzata di spalle. E questo per una ragione agevolmente intuibile: la P.O., eventualmente costituita P.C., non sarà mai soggetto estraneo al processo e quindi terzo come è invece un normale testimone che si appresti a deporre.
Al riguardo, è importante osservare che nel processo penale il dubbio sulla responsabilità dell’imputato deve risolversi per definizione nella sentenza assolutoria, visto che non è mai l’innocenza bensì la colpevolezza a dovere essere provata dall’accusa. Come a voler dire che mentre per il trionfo dell’accusa è sempre necessario che sia raggiunta la prova certa, alla difesa gioverebbe anche il solo dubbio.
La materia del valore della prova dichiarativa della persona offesa dal reato, tanto discussa quanto foriera di notevoli problematiche dal sapore costituzionale, è ad oggi riservata ad una giurisprudenza che, più che rivestire una posizione esegetica o ermeneutica, appare pienamente fondativa, capace di “dicere ius”. Sulla base di tale posizione ricoperta, la scelta mantenuta nel tempo dai giudici, territoriali o di legittimità, è quella di affidarsi al sapere, più o meno controllato, della persona offesa per arrivare ad emettere un verdetto di colpevolezza.
Tanto posto, ciò che si vuole sottolineare è dunque la necessità di mettere a nudo i fisiologici limiti dell’apporto probatorio fornito dalla persona offesa-vulnerabile, potendo l’attenzione incentrata sulla “vittima” determinare un rischioso riduzionismo probatorio, oltre che un’imputazione, da parte del P.M. rappresentante l’accusa, che appaia azzardata o addirittura deficitaria sul piano probatorio.
Dalle esposte premesse nasce e prende vita il problema sulla credibilità e attendibilità della deposizione fornita dalla persona offesa dal reato quale soggetto per sua natura interessato alla condanna del suo altrettanto naturale antagonista, oltremodo allorquando l’offeso abbia subito un trauma idoneo a determinarne una condizione di vulnerabilità psicologica. Tanto accade poiché il sistema giudiziario accetta che soltanto il giudice debba essere lucidamente terzo ed imparziale, affidandosi, pur tuttavia, alla deposizione di chi coltivi un comprensibile interesse personale, morale e talora economico-patrimoniale (nell’ipotesi in cui la persona offesa si costituisca parte civile), soggetto dichiarante a cui giammai potrebbe chiedersi la neutralità rispetto ai fatti.
I margini di sospetto dettati da questo sistema così come delineato si mostrano con evidenza anche nel raffronto col processo civile. Per vero, poiché il giudizio penale è improntato alla regola dell’accertamento della responsabilità condotto “al di là di ogni ragionevole dubbio”, mentre in quello civile vige la regola, meno rigorosa, del “più probabile che non”, la coerenza del sistema risulterebbe scalfita consentendo di fondare la condanna penale semplicemente sul racconto di un soggetto tutto tranne che disinteressato, il quale, paradossalmente, nel rito civile nemmeno avrebbe parola. Difatti, l’incapacità a testimoniare è disposta dall’art. 246 c.p.c., a rigore del quale non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio.
Ciò nondimeno, si vuol ribadire, la giurisprudenza italiana da tempo sposa con costanza una precisa linea interpretativa consistente nel basare le condanne sulla rilevanza esaustiva del solo racconto della persona offesa dal reato, quand’anche si costituisca parte civile, spesso in mancanza di altri testimoni utili a chiarire il quadro probatorio.
Se questa è la scelta portata avanti dai giudici, di merito e non, allora è fondamentale che si indaghi sul tema della veridicità, credibilità, attendibilità e coerenza della vittima dichiarante che, nel dibattimento, più o meno consapevolmente trasforma le proprie dichiarazioni in un vero e proprio “racconto”. La sua deposizione istruttoria prende vita dall’impulso del pubblico ministero ed ha una non trascurabile forza espansiva, i relativi risultati potendo fondare e giustificare una sentenza di condanna, pur senza la necessità di ulteriori elementi di supporto, che la riscontrino o la corroborino.
In una delle numerose pronunce della Corte di Cassazione sul tema de quo, con sentenza del 20 marzo 2019, n. 12250/19, la stessa ha precisato che la prova della responsabilità è desunta dalle chiare e limpide dichiarazioni rese dalla persona offesa, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto. Analogamente, la giurisprudenza di merito si è allineata a tale indirizzo, ritenendo che la deposizione della persona offesa possa essere assunta, anche da sola, come prova della responsabilità dell’imputato, purché sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità e senza la necessità di applicare le ordinarie regole probatorie di cui agli artt. 192, commi 3 e 4 c. p. p. che invece richiedono riscontri esterni. Tali orientamenti, in considerazione dell’intervenuta solidità giurisprudenziale, assumono il valore di principi cardine da calare e radicare in materia di dichiarazioni provenienti da soggetti connotati da una condizione di vulnerabilità post-traumatica.
Quali e quanto estesi siano i criteri di valutazione della suddetta credibilità è questione annosa, in cui è necessario addentrarsi a passo d’uomo, con la necessaria prudenza e curiosità che animano ogni giurista.
1.1. La credibilità della vittima nei procedimenti per violenza sessuale. La figura del minore abusato e la Carta di Noto
I principi elaborati nei procedimenti attinenti a violenza sessuale, in relazione alla valutazione di attendibilità e credibilità della persona offesa, si basano sull’assunto per cui l’accertamento delle particolari dinamiche delle condotte di violenza sessuale nella maggioranza dei casi deve essere svolto senza l’apporto di testimoni diversi dalla stessa vittima. Fatalmente, si riscontra una peculiare tensione istruttoria scaturente dalla necessità di apprendere la vicenda proprio da chi l’ha direttamente subita, soprattutto quando la vittima sia un minore.
In queste ipotesi, la deposizione della persona offesa, sola depositaria della vicenda, può essere assunta autonomamente come fonte di prova della colpevolezza, a seguito di un’indagine positiva sulla credibilità soggettiva ed oggettiva di chi l’ha resa. Tanto si verifica proprio perché in tale contesto quasi sempre l’accertamento dei fatti accaduti dipende dalla valutazione delle opposte versioni fornite dall’ imputato e dalla parte offesa, soli protagonisti di quegli accadimenti, in assenza di qualsivoglia riscontro oggettivo atto ad attribuire maggiore credibilità dall’esterno all’una o all’altra tesi.
Nei reati di violenza sessuale non v’è dubbio che il controllo intorno alla credibilità soggettiva della persona offesa e all’attendibilità intrinseca del racconto reso dalla stessa dovrà essere ancor più penetrante e rigoroso, dovendo ritenere la P.O. portatrice di un personale interesse all’accertamento del fatto.
Tuttavia, gli elementi atti a fondare il sospetto che la vittima di reati sessuali dichiari il falso giammai possono abitare nei suoi “costumi sessuali”, ossia nelle abitudini sessuali, nel modo di vivere la propria corporeità e sessualità, posto che la vita privata e la sessualità della persona offesa rilevano processualmente solo quando ciò sia necessario alla ricostruzione del fatto. Per meglio dire, ogni argomento che sottintenda o alluda ai “facili costumi” della persona offesa quale fattore di dubbio sulla sua attendibilità non trova alcuno spazio nella valutazione in esame.
Analogamente, la mancanza di una puntuale collocazione spaziale del fatto verificatosi non contribuisce a ledere l’attendibilità della narrazione effettuata, purché la collocazione stessa risulti utilmente accertata in base ad altri elementi probatori.
Quando la vittima del reato sessuale è un minore è necessario che l’esame della credibilità tenga conto di molteplici elementi, in particolar modo l’attitudine a testimoniare e quella, legata all’età, a memorizzare gli avvenimenti e a riferirli in modo coerente, il contesto delle relazioni familiari ed extra-familiari nonché i processi di rielaborazione delle vicende vissute.
Precisamente, accertata la capacità di comprendere e riferire i fatti della persona offesa minorenne, la sua deposizione deve essere analizzata nel più ampio contesto socio-ambientale, onde escludere l’intervento di circostanze esterne idonee a inficiarne la credibilità.
Tanto è utile sottolineare dal momento che i minori, seppur dichiarati attendibili e lasciati liberi di raccontare, possono divenire malleabili in presenza di suggestioni esterne, arrivando a conformarsi alle aspettative dell’interlocutore quando interrogati. Per evitare il verificarsi di tali fenomeni, è fondamentale ricostruire la prima dichiarazione del minore, spontanea e più genuina perché immune da interventi estranei ed intrusivi, capaci di alterare il sincero ricordo dell’accaduto, come ad esempio le reazioni emotive degli adulti presenti al momento della narrazione.
Imprescindibile, per meglio operare una valutazione rigorosa e neutrale da parte dei giudici, delle dichiarazioni rese dai minori, l’apporto di scienze apposite quali la pedagogia, psicologia e sessuologia.
Proprio allo scopo di attribuire carattere tendenzialmente scientifico alla valutazione di attendibilità in queste delicate fattispecie, è stata varata nel 2017 la Carta di Noto, contenente importanti linee-guida per gli esperti nell’ambito degli accertamenti compiuti sui minori vittime di abusi sessuali. A ben vedere, l’inosservanza dei protocolli prescritti dalla Carta di Noto per la conduzione dell’esame di un minore vittima di abusi non determina in alcun modo la nullità o inutilizzabilità della prova, tantomeno l’inattendibilità delle dichiarazioni raccolte. Nondimeno, sebbene il giudice non sia vincolato al rispetto dalla Carta di Noto, egli è tenuto a motivare perché ritenga, secondo il proprio libero ma mai arbitrario convincimento, attendibile la prova dichiarativa assunta in evidente violazione delle prescrizioni della Carta.
Per meglio dire, quanto più grave sarà la violazione dei protocolli prescritti dalla Carta di Noto, tanto più il giudice dovrà scrupolosamente motivare circa l’attendibilità del minorenne abusato.
- Il cammino giurisprudenziale sulla credibilità delle persone offese. La sentenza n. 13016/2020 della Corte di Cassazione
Nel corso degli anni, copiosa giurisprudenza di merito e di legittimità si è pronunciata in numerose occasioni sul problema dell’attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa dal reato, soprattutto in relazione a reati oggetto di forte attenzione mediatica, quali il delitto di stalking ex art. 612 bis c.p., ovvero quello di maltrattamenti contro familiari e conviventi ex art. 572 c.p.
Da ultimo, la Suprema Corte con sentenza n. 13016 del 6 marzo 2020 ha recentemente confermato il proprio orientamento, da ritenere ormai consolidato, nonché specificato ulteriormente gli aspetti salienti del concetto di attendibilità della persona offesa dal reato. Stando alla Cassazione, quanto ai criteri per la valutazione delle dichiarazioni accusatorie della persona offesa, il relativo procedimento deve estrinsecarsi secondo una precisa scansione logica.
Si parte, dunque, dall’analisi della capacità a testimoniare, ossia l’abilità soggettiva a recepire le informazioni, ricordarle, raccordarle e riferirle coerentemente, capacità che deve presumersi, salvo specifiche situazioni atte a porla in dubbio; si prosegue con la valutazione dall’età del dichiarante e delle sue condizioni psichiche, giungendo alla disamina della credibilità soggettiva, onde verificare che quanto riferito non sia inquinato da situazioni in grado di alterare, più o meno consapevolmente, la genuinità del racconto. Successivamente, si procede col vaglio della attendibilità intrinseca, da intendere come capacità del racconto di offrire una rappresentazione quanto più logica possibile degli eventi evocati. L’ultimo tassello attiene a eventuali- melius, non necessari- riscontri esterni rispetto al narrato.
La circostanza, quest’ultima, per cui si tratti di riscontri esterni meramente “eventuali” va ricondotta alla tesi confermata e scolpita dai giudici di legittimità, a rigore della quale le dichiarazioni della persona offesa devono poter da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale dell’imputato, si ribadisce ancora una volta, previa verifica della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto.
- Verso i (possibili) criteri di valutazione: il confine tra credibilità e sospetto intorno alle dichiarazioni rese. L’ascolto protetto delle vittime vulnerabili
Lungo la linea sottile che si frappone tra credibilità e fattori di sospetto, principaliter nei riguardi delle testimonianze “vulnerabili”, dove si colloca il “dubbio sull’attendibilità” che attanaglia il giudicante e, in generale, il giurista?
I potenziali dubbi sull’attendibilità di quanto narrato possono innanzitutto derivare dalla naturale e quasi fisiologica propensione del denunciante a esporre i fatti in modo tale da confermare i contenuti della precedente denuncia, anche nell’ottica di scongiurare conseguenze negative a cui normalmente si espongono i calunniatori.
Ben può accadere, inoltre, che i fatti denunciati siano il frutto di un errore commesso in buona fede ovvero che, sebbene il reato sussista, il denunciante involontariamente accusi un innocente a causa di un equivoco, di un errore percettivo o di un fenomeno di suggestione.
Non v’è dubbio, in una prospettiva di più ampio respiro, che la valutazione giuridica di attendibilità e credibilità intorno alle dichiarazioni rese dalle persone offese dal reato dovrebbe occupare lo spazio di un’ autonoma e attenta verifica che si avvalga tanto di elementi concreti rapportati al “caso per caso” quanto di parametri generali di riferimento come la spontaneità, la linearità, l’affidabilità e la plausibilità del racconto riferito della vittima, la coerenza e la completezza della narrazione (o al contrario la contraddittorietà ed illogicità di quanto esposto), la capacità di riportare fedelmente alla memoria i ricordi e di riviverli al momento dell’escussione, la verosimiglianza delle giustificazioni addotte. Né deve trascurarsi il modo in cui si depone, proprio perché, essendo meno padroneggiabile delle espressioni verbali, può costituire un prezioso fattore rivelatore, una sorta di linguaggio secondario.
Il 20 gennaio 2015 è entrato in vigore il decreto legislativo n. 212 del 15 dicembre 2015 che, in attuazione della direttiva europea n. 29 del 25 ottobre 2012, ha introdotto nel sistema penale alcune norme in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato.
Precipuamente, il decreto legislativo n. 212/2015 ha apportato alcune importanti modifiche al codice di procedura penale idonee a rafforzare la posizione processuale e procedimentale della persona offesa durante la sua audizione, riconoscendo un effettivo status di vittima del reato e fornendo un efficace strumentario per tutelarne la partecipazione consapevole all’interno del procedimento-processo penale.
Per quel che rileva, una notevole innovazione apportata riguarda le modalità effettive di partecipazione al processo della persona offesa, con particolare riferimento alle vittime c.d. “vulnerabili”. È stato introdotto in tale direzione il nuovo art. 90 quater c.p.p., che definisce una serie di parametri soggettivi ed oggettivi tesi a stabilire se la persona offesa versi in una condizione di particolare vulnerabilità.
Tale condizione, secondo la disposizione, andrebbe desunta “oltre che dall’età e dallo stato di infermità o di deficienza psichica, dal tipo di reato, dalle modalità e circostanze del fatto per cui si procede. Per la valutazione della condizione si tiene conto se il fatto risulta commesso con violenza alla persona o con odio razziale, se è riconducibile ad ambiti di criminalità organizzata o di terrorismo, anche internazionale, o di tratta degli esseri umani, se si caratterizza per finalità di discriminazione, e se la persona offesa è affettivamente, psicologicamente o economicamente dipendente dall’autore del reato”.
L’intento perseguito dal legislatore è radicato nella volontà di proteggere la vittima vulnerabile da interferenze esterne e contatti con l’autore del reato e di assicurare le sue dichiarazioni al procedimento in modo garantito e genuino. Questo scopo di garanzia è realizzato mediante la previsione di particolari cautele per la vittima vulnerabile in fase di audizione, durante le indagini, in incidente probatorio ovvero durante il dibattimento.
L’aspetto rivoluzionario risiede nella circostanza per cui si tratta di cautele già previste per l’acquisizione delle informazioni e delle testimonianze nei confronti di minori, nel caso in cui si proceda per determinati reati, come maltrattamenti e reati sessuali, e che qui vengono volutamente estese anche alla vittima considerata “particolarmente vulnerabile” secondo i parametri suesposti.
Per quanto attiene alla fase delle indagini preliminari, l’intervento ha investito gli artt. 351 comma 1-ter e 362 comma 1 bis c.p.p. prevedendo che la polizia giudiziaria o il pubblico ministero, nell’ assumere sommarie informazioni da una vittima “particolarmente vulnerabile”, anche maggiorenne, possano avvalersi di un esperto in psicologia o psichiatria. I medesimi organi, inoltre, devono assicurare che la persona offesa particolarmente vulnerabile, una volta sentita, non abbia contatti con l’indagato e non sia chiamata più volte a rendere sommarie informazioni, salvo il caso di assoluta necessità per le indagini. La volontà di evitare che la vittima sia chiamata più volte a rendere informazioni sottolinea l’esigenza di evitare inutili ripetizioni dell’esame tanto per non causare ulteriori stress psicologici alla vittima quanto per non compromettere la genuinità e attendibilità delle dichiarazioni di questa.
Un ulteriore tassello innovativo è stato posto in materia di incidente probatorio, ove il decreto legislativo in esame ha integrato l’art. 392 comma 1 bis c.p.p., estendendo la possibilità di ricorrere a tale istituto quando la persona offesa versi in condizione di particolare vulnerabilità, anche al di fuori dei limiti rigorosi di cui al comma 1 del medesimo articolo, limiti caratterizzati, ad esempio, dal rischio dell’impossibilità di escussione in dibattimento, dall’esposizione a violenza o minacce. Per quanto riguarda le precise modalità di conduzione dell’esame in incidente probatorio della persona offesa-vulnerabile, è stato aggiunto all’art. 398 c.p.p. il nuovo comma 5 quater che dispone l’adozione di modalità protette, come ad esempio l’esame schermato dal vetro specchio.
La rivoluzione intervenuta in sede di incidente probatorio, volta a rendere più agevole l’utilizzo di tale strumento da parte dei soggetti che versino in condizione di particolare vulnerabilità, ha trovato consistente applicazione giurisprudenziale negli ultimi anni, come verificatosi ad esempio in sede di legittimità con la Cassazione del 16 maggio 2019, n. 34091.
Circa l’esame della vittima in dibattimento, è stato in primis modificato l’art. 190 bis c.p.p., disposizione che costituisce una deroga al principio fondamentale di oralità della prova nel dibattimento, prevedendo che, in alcuni casi specifici- trattandosi di delitti di associazione a delinquere e/o di stampo mafioso- l’esame di testimoni o persone imputate in altri procedimenti connessi che abbiano già reso dichiarazioni sia ammissibile “solo se riguarda fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni ovvero se il giudice o taluna delle parti lo ritengono necessario sulla base di specifiche esigenze” . Tale limitazione, valevole altresì in favore del minore di anni sedici, qualora si tratti di procedimenti relativi a reati sessuali e di pedofilia, a seguito della riforma, è oggi estesa anche alle persone offese che versino in condizione di particolare vulnerabilità.
Il d.lgs. 212/2015 ha infine modificato incisivamente l’art. 498 comma 4-quater c.p.p., relativo all’esame dibattimentale della persona offesa che versi in condizione di particolare vulnerabilità, prevedendo la possibilità che esso avvenga con l’adozione di modalità protette qualunque sia il reato per cui si procede, vale a dire non solo per determinati tipi di delitti, tra cui il reato di maltrattamenti e alcuni reati sessuali, come era invece in precedenza.
Le novità introdotte dal d.lgs. 212/2015, per il tramite dell’applicazione pretoria che ne ha fatto seguito anche in sede di giurisprudenza di legittimità, rappresentano un deciso passo in avanti nella riconosciuta valorizzazione dello status di vittima del reato e, soprattutto, nella tutela della stessa tanto nel processo quanto in fase di indagini preliminari, altresì attraverso la previsione di una completezza delle informazioni da rivolgere alla persona offesa relativamente ai propri diritti e facoltà.
Il legame di questa consapevolezza giuridica col tema dell’attendibilità delle dichiarazioni provenienti dalla persona offesa è immediato: è evidente come un’attenta tutela della vittima del reato, garantendo una più genuina dichiarazione promanante dalla medesima, sia in grado di meglio assicurare la credibilità del suo racconto.
Ad oggi, quella dell’attendibilità rappresenta una valutazione complessa ma irrinunciabile, se non si vuole incorrere nel rischio di attribuire cieca credibilità alla persona offesa “in quanto tale”. Per converso, un’analisi superficiale e riduttiva di tale aspetto varrebbe a ignorare quelle che sono ragioni di dubbio invalicabili perché riconducibili ad un soggetto ex ante interessato a far valere la colpevolezza del suo antagonista naturale.
La necessità che un esame intorno alla attendibilità delle prove dichiarative rese dalle (assunte) vittime sia urgente e non rinunciabile rappresenta una presa di coscienza giuridica che, lungi dal condannare la persona offesa ad una “sfiducia a monte”, intende invece tutelare la genuinità del suo racconto e far valere la verità processuale. A conferma di ciò, la Corte Costituzionale, con ordinanza n. 115, già nel 1992 aveva sottolineato con forza che la rinuncia a priori al contributo probatorio della parte civile costituirebbe un sacrificio troppo grande nella ricerca della verità processuale.
Se quanto detto è vero, allora non si tratterebbe di rinunciare ai risultati della deposizione della persona offesa, bensì di ridimensionarne notevolmente l’attuale peso riconosciuto dalla giurisprudenza “creativa”, di riconoscerne i limiti, di comprendere come la verità nelle aule di giustizia sia un risultato tutt’altro che scontato.
Del resto, più che mai attuale è la visione di George Orwell, per cui “in tempi di menzogna universale, dire la verità è un atto rivoluzionario”.